Quanto inclusiva è (e può essere) la lingua?


Quello che c’è di bello nelle discussioni sulla lingua è che, qualunque sia l’argomento del momento, c’è sempre qualcosa da dirne dal punto di vista linguistico. In questi giorni, l’attualità, anche linguistica, prevede che si parli di distinzioni di genere. Se in Italia si discetta di patria e matria, in Francia ci si concentra sull’opposizione (grammaticale) tra maschile e femminile.  I due principali motivi di polemica riguardano, da una parte, la cosiddetta “scrittura inclusiva” (la pratica di redigere documenti ufficiali non marcati per un genere specifico), e dall’altra la regola grammaticale per cui, nell’accordo ad esempio tra nomi e aggettivi, il maschile ha sempre la precedenza sul femminile. E’ evidente che si tratta di due questioni che sono su due piani diversi, anche se nel dibattito pubblico tendono ad essere, se non confuse, perlomeno mescolate: puramente stilistica e legata a un ambito linguistico specifico la prima, grammaticale e più generale la seconda. Mi riprometto di trattare del problema dell’accordo maschile / femminile in un prossimo post, limitandomi, qui, a parlare, dunque, di scrittura inclusiva, ossia delle pratiche di scrittura che consistono a tenere conto della distinzione di genere. In francese, la pratica più comune (ma ce ne sono in realtà molte altre) consiste nell’indicare sistematicamente, per i nomi di umani variabili in genere, sia le desinenze del femminile che quelle del maschile: “les étudiant.e.s” (che sta per “les étudiants” e “les étudiantes”), “les citoyen.ne.s” (“les citoyens” e “les citoyennes”), etc. In genere, si separano le desinenze con dei punti (come qui sopra), altre volte (come nell’esempio qui sotto) si usano le parentesi, e alcuni propongono di usare il cosiddetto “punto mediano”, un punto scritto a metà della riga, come in “les étudiant⋅e⋅s”.
La polemica ha raggiunto il suo acme, mi sembra, quando il primo ministro Edouard Philippe ha annunciato che il governo avrebbe escluso dai documenti ufficiali la “scrittura cosiddetta inclusiva”, ma era già in atto da qualche settimana. Le Monde fa risalire il suo inizio alla pubblicazione, per l’anno scolastico in corso, del primo libro di testo per le scuole realizzato in scrittura inclusiva. Nel libro (che è visibile in questo servizio del telegiornale di France 2) i capitoli parlano, ad esempio, di “puissant.e.s de l’histoire”, di “agriculteur.rice.s”, etc. 
Tra i(/le) detrattori(/trici) della scrittura inclusiva si trova addirittura l’Académie Française che, con toni un po’ apocalittici, in una dichiarazione approvata all’unanimità, parla di “pericolo mortale” che verrebbe dall'“aberrazione” costituita da tale pratica. In maniera ancora più drammatica, la stessa istituzione utilizza un argomento che fa sempre presa, quello della “guerra delle lingue” e della necessità, per il francese, di armarsi contro le minacce esterne. Secondo gli accademici (anzi secondo gli/le accademici/che, visto che quattro di loro sono donne), il “raddoppiamento della complessità” rappresentato dalla scrittura inclusiva rischia di provocare un indebolimento della loro lingua, “a beneficio di altre lingue [verosimilmente l’inglese, nota mia] che ne approfitteranno per prevalere nel pianeta”. Affermazioni così lontane da qualsiasi approccio razionale alle questioni linguistiche, e soprattutto di linguistica storica e geopolitica, non meriterebbero nemmeno di essere commentate, se non per sottolineare un tono vagamente neocolonialistico (se complessifichiamo la lingua, la francofonia è in pericolo) che è in perfetta coerenza con la più generale foga anti-inclusiva. Più seriamente, il famoso linguista e lessicografo Alain Rey ha sottolineato come, per un paese la cui lingua ha uno dei sistemi di scrittura più complessi al mondo, e in cui l’ortografia è anche un importante veicolo di inclusione o esclusione sociale, complessificarla ulteriormente in maniera indiscriminata non è probabilmente una buona idea. 
Per i(/le) fautori(/trici) della scrittura inclusiva, invece, la lingua è non soltanto uno specchio della società che la parla, ma contribuisce anche in maniera determinante a modellare il modo di pensare. Per loro, continuare a praticare la scrittura non inclusiva che in Francia si è praticata per secoli equivarrebbe a perpetrare una società maschilista, disattenta, se non proprio ostile, ai diritti delle donne.
Come le mie colleghe del blog Bling, non voglio dare né un giudizio estetico (e ci mancherebbe!), né delle raccomandazioni d’uso, ma piuttosto osservare i fatti e come sono trattati dai media. Quello che mi sorprende di più è che nessuno, neanche tra i/le linguisti/e che si sono occupati/e della questione, ne ha discusso fino in fondo i termini. 
Innanzitutto, come sottolineano le autrici di Bling, la scrittura inclusiva è limitata ai discorsi in cui è necessario parlare di uomini e donne in maniera generica, di funzioni o gruppi sociali la cui composizione non è determinata o rilevante. Ciò esclude, ad esempio, la maggior parte degli usi letterari, ma anche giornalistici, e più o meno colloquiali, ossia tutte le occasioni in cui si parla di persone reali (o di gruppi di persone reali). La scrittura inclusiva - ed è questo per me l’argomento fondamentale - è per lo più limitata, in realtà, agli usi burocratici e istituzionali. Ovviamente, si tratta di un insieme di testi ampio e importante, che ha grande diffusione nella società. Con scrittura burocratico-istituzionale voglio parlare non soltanto dei documenti ufficiali prodotti dalle istituzioni, ma anche di tutte le pratiche di scrittura che ne riprendono lo stile o le regole. Il libro di testo di cui ho parlato sopra rappresenta, mi sembra, indirettamente, una conferma di questa idea., I suoi autori fanno la scommessa di usare la scrittura inclusiva in un ambito diverso da quello burocratico (in senso lato), ma, dalle poche immagini che si vedono nel filmato che ho menzionato sopra, il risultato sembra tutto sommato abbastanza artificioso. E in ogni caso il libro non mantiene tutte le sue promesse: i titoli dei capitoli adottano infatti la scrittura inclusiva, ma nel testo poi viene scelto un più classico maschile generalizzato (anche nel caso di un immagine in cui si vedono chiaramente un personaggio maschile e uno femminile, il testo recita “Que fabriquent ces artisans?”, “Quels outils utilisent-ils?”, 'Che cosa fabbricano questi artigiani?', 'Quali strumenti usano [con il pronome maschile]' ).
Questo esempio, in sé abbastanza minimo, è però emblematico di un fatto che ha a che vedere con il carattere artificiale in generale della scrittura inclusiva. I/le suoi/e detrattori/trici liquidano questo aspetto sostenendo che la scrittura inclusiva rappresenta una complicazione rispetto alla lingua (per loro) ‘normale’, quella, per intenderci, in cui il maschile ha la prevalenza sul femminile. Per entrare più nel merito, io direi che la scrittura inclusiva ci obbliga a una riflessione metalinguistica costante, ossia un’attività che rende la costruzione del discorso ‘innaturale’. Mi spiegherò meglio qui sotto, ma per illustrare questo punto voglio raccontare un piccolo aneddoto. Circa un anno fa la membra di un gruppo di lavoro di cui faccio parte all’università si era proposta di tradurre’ in scrittura inclusiva un documento prodotto dallo stesso gruppo. A lavoro ultimato, mi ero permesso di oppormi ad una formulazione che suonava all'incirca “les différent.e.s acteur.rice.s de la recherche”, facendo notare che, se si può parlare, metaforicamente di “attori della ricerca”, parlare di “attrici” mi sembrava assai più bizzarro, tenendo conto del fatto che, in ogni caso, la denominazione si riferiva ad università ed altri enti, esseri per definizione non sessuati; e che, in ogni caso, il maschile di “attori” qui ha lo stesso valore del femminile di “istituzioni”, cioè, dal punto di vista dei sessi biologici, nessuno. Tutto ciò per dire che la scrittura inclusiva non può essere il frutto di un’attività automatica, inconscia, come quella che pratichiamo normalmente parlando (e in misura minore scrivendo), ma che richiede, al contrario, che riflettiamo senza sosta all’insieme degli individui (o oggetti) a cui un’espressione si riferisce, ai legami sintattici tra le varie parole di una frase, etc. Tanto è vero che, pur incontrando sempre di più esempi di scrittura inclusiva allo scritto in ambiti e contesti sempre più vari (l’immagine che riproduco, ad esempio, è tratta dall’opuscolo che viene distribuito in una catena di cinema francese), all’orale non ho
ancora sentito nessuno, uomo o donna, fare lo sforzo di menzionare sistematicamente “gli studenti e le studentesse”, “i direttori e le direttrici”, etc. nel parlato spontaneo e colloquiale.
Vi sono almeno altri due motivi - collegati tra loro - per cui la scrittura inclusiva è fondamentalmente innaturale. Il primo è la sua ridondanza: in essa ogni espressione linguistica che si riferisce ad un insieme generico di esseri umani è ripetuta due volte, una al maschile e una al femminile. Ovviamente, le lingue naturali non sono completamente prive di qualsiasi ridondanza, ma, che io sappia, non esiste nessuna lingua in cui il riferimento ad un gruppo generico di persone si realizzi tramite la ripetizione del nome che le designa. (La ripetizione esiste nelle lingue, ma ha in generale altri scopi, perlopiù espressivi). L’altro motivo è il fatto che la scrittura inclusiva ha una finalità che non è quella per cui le lingue sono normalmente progettate. In altre parole, non ha uno scopo (puramente) comunicativo (parlare di un insieme generico di umani usando una combinazione di maschile e femminile non è, in sé, più informativo che farlo usando un genere scelto arbitrariamente - poniamo il maschile, come si è fatto per secoli), ma risponde a finalità, per così dire, politiche e sociali.  
Osserverei, tra l’altro, en passant che la non naturalezza della scrittura inclusiva mi sembra avere diversi gradi. La ripetizione sistematica del maschile e del femminile per insiemi generici di persone, ad esempio, è più innaturale della semplice femminizzazione dei nomi di mestieri, cariche o altri ruoli sociali, di cui tuttavia non mancano i critici (e le critiche?), sia in Francia che in Italia, ma che è assolutamente giustificata, visto che in questo caso ci si riferisce a individui (uomini o donne) specifici. (Anche in questo caso, tuttavia, non mancano i motivi di riflessione metalinguistica: è giusto, come ho fatto sopra, parlare della “membra di un gruppo” o addirittura dei “parenti dei vittimi”, nel caso questi ultimi siano solo uomini?; e perché no?, visto che in entrambi i casi si tratta di ruoli anche sociali).
Se la scrittura inclusiva è, come è indubitabile, un sistema innaturale, un’innovazione della lingua elaborata a tavolino e introdotta in maniera cosciente, significa perciò che hanno ragione i/le suoi/e critici/che, come gli/le accademici/che di Francia? Che essa rappresenta un’innovazione inutile, se non nociva, e perciò da abbandonare? Non necessariamente, ovviamente. Come ho sostenuto qui sopra, la scrittura inclusiva è propria fondamentalmente del linguaggio amministrativo e istituzionale, un genere linguistico che presenta già diversi elementi di artificiosità, spesso connessi ad una riflessione metalinguistica, sia da parte dello scrivente che del lettore. In questo senso, essa non rappresenta in alcun modo una complessificazione della lingua esistente. In certi casi, anzi, può addirittura servire a chiarire contesti in cui l’uso del maschile sarebbe ambiguo, ed ha soprattutto il valore - extralinguistico questo - di non indurre (e non rendere nemmeno possibile), tramite l’asimmetria dei generi grammaticali, una gerarchizzazione dei sessi. Quanto alle sue chances di essere estesa ad altri ambiti della lingua, ed in particolare al parlato spontaneo e ‘naturale’, anche se può sembrare una risposta banale da linguista, sarà ovviamente l’uso a decidere. Le istituzioni, linguistiche o meno, compresa l'Académie Française, possono incidere solo marginalmente sulla trasformazione linguistica, e per l'appunto solo in ambiti ristretti come quello burocratico di cui ho parlato, in cui gran parte dell'attività linguistica procede già a livello conscio. Per il resto degli usi, i parlanti non scelgono le strutture linguistiche da conservare e quindi perpetuare in base a considerazioni di inclusività sociale o di ‘political correctness’ (anche se questa può, ovviamente, diventare una delle variabili in gioco), ma principalmente su base utilitaristica; scelgono, cioè, quelle che appaiono loro come più efficaci, in particolare per la comunicazione. Da questo punto di vista, come ho osservato sopra, la scrittura inclusiva parte con diverse lunghezze di svantaggio rispetto al pur imperfetto e socialmente insoddisfacente sistema tradizionale che prevede l’asimmetria maschile / femminile. 

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